Racconti del cuore che fan bene all’anima, ricette dell’anima che fan bene al cuore. Il nuovo libro di Rosanna De Carlo

Paul Gaugin diceva che «cucinare suppone una testa leggera, uno spirito generoso e un cuore largo», caratteristiche proprie di Rosanna De Carlo che al suo terzo libro, Racconti del cuore che fan bene all’anima, ricette dell’anima che fan bene al cuore (Editrice Ermes) racconta di una cucina che è tempo e memoria.

Un testo che rimette insieme i tasselli della nostra storia identitaria, ed è proprio quell’identità la chiave con la quale si accede ai ricordi e alle esperienze raccontate.

Com’è nato questo libro, da quale esigenza?

Combatto sempre lo stress negativo con quello positivo. Il primo libro “Memorie pluridirezionali” l’ho pubblicato nel 1991-92 e stavo vivendo in un periodo in cui le persone pensavano di poter spadroneggiare. Erano poesie che non avevo mai pubblicato, rappresentavano una parte di me, di vicende in buona parte vissute, altre sentite. Il secondo libro invece “Non di solo (ma soprattutto) di pane”, l’ho scritto quando sono stata sospesa dal lavoro a tempo indeterminato e la mia ancora è stata la cucina, (facevo parte di una cooperativa), ho cominciato dai piatti che sapevo cucinare e poi ho integrato con lo studio e ovviamente l’esperienza dei miei viaggi all’estero, nei quali non solo ho trasmesso quello che sapevo io,  ma ho imparato come si muovevano gli altri. Quindi mangiando e assaporando ho imparato. Questo terzo libro invece nasce da una situazione familiare difficile e scrivere è stato un modo per venirne fuori. Ci tengo a specificare che i proventi li devolvo sempre in beneficienza perché scrivere per me, non è un modo per guadagnare ma è per lasciare l’eredità di un tempo che non c’è più e di cui sono stata protagonista.

 

Raccontaci del titolo, perché racconti del cuore e ricette dell’anima?

In una delle gare che ho fatto a Peschici, il Presidente della commissione era di nazionalità russa, a fine pasto si alza e mi dice: «signora in tutti i piatti che ho mangiato oggi, tutti ottimi, solo nei suoi ho trovato l’anima. Lei cucina con l’anima». Ricordo che avevo preparato i fusilli (fatti in macchina durante il viaggio) con il sugo di pezzente, un nostro piatto della tradizione e questo accanto ai racconti, alle favole che continuamente mi venivano narrate da piccola (c’era una volta una vecchia ed un vecchio che mangiavano le fave dietro lo specchio..) mi hanno portato al titolo del libro. Un testo emozionale.

 

Nei tuoi racconti ricorre spesso la povertà, la descrivi quasi in maniera fotografica a cominciare dal primo racconto. In un certo senso la povertà esalta e sublima il cibo?

La povertà non è proprio da considerare tale, perché nello stile di vita dell’epoca la povertà era quella goccia in più che non faceva traboccare il vaso, ma che lo riempiva. – Oggi in cucina va molto di moda l’idea di cucina semplice, di ritornare alle radici, all’autenticità, cercare di trasformare il meno possibile la materia prima, tu cosa ne pensi? Penso che il nostro futuro sarà solo il nostro passato, questo non significa tornare indietro a vivere miseramente ma abbiamo perso di vista la nostra identità, perché con le mode c’è stato un cambio di comportamento generazionale e abbiamo perso l’esigenza di mangiare per il luogo dove siamo nati.

 

In che misura gli incontri e le esperienze che hai vissuto hanno influito sulla tua cucina e se questi hanno cambiato il tuo modo di cucinare?

Parto da un esempio: quando sono stata in Tunisia ero ospite in una casa privata. Quando vai in un paese straniero e sei ospitato, questo  è già  un gesto nobilissimo. Molto dipende da te, dal tuo atteggiamento, se tu sei disponibile anche loro, si aprono a te. Solo che il rapporto è difficile mantenerlo per via della lingua. In Afghanistan per esempio ho insegnato la nostra cucina a dei giovani durante la mensa militare, e anche lì ritorna il discorso della disponibilità “culturale” anziché mangiare le mie preparazioni, mangiavo con loro e quello che avevano preparato loro. Ricordo che le chiacchiere, il nostro dolce tipico di carnevale, erano un cibo che mangiavano tutti per via degli ingredienti e anche per la sua preparazione, per questo le facevo spesso, rappresentavano in qualche modo un punto d’incontro di culture diverse. – Come ci sei arrivata in Afghanistan? – Tramite un amico che stava mettendo in piedi a Herat e Kabul da ristoranti che erano fallimentari, una rete dove insegnare la cucina e al tempo stesso fornire un servizio. Quando ho accettato, non era di certo per i soldi, ma per dare un futuro a quei ragazzi. Dipende sempre dall’aspettativa che hai di te stessa nei confronti degli altri, non quello che ti danno gli altri. La cucina è un linguaggio universale, d’inclusione ed è seduti a tavola che spesso si risolvono i problemi.

 

Il tuo rapporto con il cibo, com’è cambiato nel tempo? Che cosa significava cucinare ieri e cosa significa cucinare oggi, cos’è rimasto?

Nasco inappetente! Da piccola non mangiavo nulla, non mi piaceva nulla al di fuori del latte e del pane! Infatti, mia madre per farmi mangiare mi faceva l’uovo a «scisciel» poi con la maternità è come se fossi ritornata a nascere ed ho sentito l’esigenza di mangiare, di provare cose diverse anche il gusto si era sviluppato come l’olfatto. Per quanto riguarda l’evoluzione culinaria, diciamo che gli ingredienti sono sempre gli stessi, la nostra cucina non è mai povera, è semplice che è una cosa diversa. Infatti, noi con una zucchina prepariamo dieci piatti diversi, la pasta di casa ha un’infinità di formati e ripieni, lo stesso vale per i sughi: quello con la coria, con le diverse carni, con le polpette. C’era l’utilizzo stagionale di tutti i prodotti e si variava, era quella l’intelligenza dei nostri antenati, che non avevano libri, non avevano frequentato le scuole ma con un solo ingrediente facevano mille cose e non buttavano via niente.

 

Nel libro racconti un po’ la tua storia. La tua passione per la cucina non è venuta fuori subito. C’è un’immagine nella tua memoria che si ricollega al momento in cui hai deciso di voler cucinare?

Un’immagine precisa no, ma quando sono cresciuti i miei figli, preparare per loro una lasagna, i loro piatti preferiti, vedere che i miei piatti piacevano anche agli amici ai parenti, e che li rendevano felici, questo mi ha fatto scattare la voglia di migliorare sempre di più. Quando ho conosciuto le altre cucine, altri ristoranti, altre cose, ho fatto un passo indietro, lascio agli altri fare tutto quello che vogliono: la nouvelle cuisine, la cucina molecolare, e tutto il resto, ma io voglio lasciare l’eredità di quello che abbiamo dentro, che è nel nostro Dna, Il Dna dei nostri nonni e bisnonni. Oggi è un concetto ripreso da molti chef quello della territorialità, portare avanti l’identità del nostro posto e i prodotti del luogo, tu sei stata una pioniera!  Penso che chi venga da fuori deve trovare l’identità di un popolo che si manifesta con il calore umano, e ovviamente con la cucina. A questo proposito, a me manca molto la comunione dei piatti, come accadeva sessant’anni fa: la condivisione del cibo nello stesso piatto, la tavola che riuniva diverse generazioni.

 

I piatti di una volta raccontano anche la quotidianità di quel tempo?

Certo. Ti faccio subito un esempio si facevano la« carchiola e lu sciumir» perché erano la cosa più immediata da fare. La carchiola era il pane di quando non si aveva il tempo di farlo. E poi non si buttava via niente, la capacità di utilizzare tutto: ad esempio le penne del pollo si mettevano nei materassi e nei cuscini, con l’intestino la testa e le zampe si faceva un brodo dal sapore eccezionale, il sangue veniva bollito, poi una volta rappreso veniva fritto con aglio e peperoncino. Hai una memoria di quel periodo impressionante – è perché ho continuato a fare tutto quello che vedevo a casa mia, tra l’altro mio nonno andava spesso a Napoli e ci portava la pizza ripiena ed altre “novità” che a Ruoti non c’erano. Anche due mie zie hanno studiato a Napoli e poi mio zio Felice che amava cucinare, si era trasferito con la moglie siciliana a Bologna e aveva imparato anche i piatti bolognesi e quando l’estate venivano a casa mia avveniva un vero e proprio scambio culturale, tra tortellini e caponata!

 

Aspettiamo un tuo nuovo libro?

Ora sto scrivendo per una persona, un progetto molto diverso ed è interessante entrare nella vita di qualcun altro. Nel frattempo raccolgo nella memoria i racconti che non sono stati inseriti in questo libro e poi sono impegnata come responsabile nazionale in Ristoworld women.